Il manoscritto
La scrittura è stata affidata nella storia a tanti e diversi supporti, dalla pietra al metallo, dal papiro alla pelle animale, alla corteccia dell'albero. A quest'ultima, detta in latino codex, risale il termine "codice", con il quale modernamente si denomina il libro manufatto, o manoscritto.
Manoscritto può essere il rotolo di papiro (in latino volumen), come il libro pergamenaceo, come, infine, il libro di carta. Nell'antichità il libro fu papiraceo, ma a causa della deperibilità del supporto scrittorio ben poco di tale antica produzione ci è pervenuto. La grande mole del materiale manoscritto che si è conservata fino ai nostri giorni è invece costituita dai codici pergamenacei (se ne conoscono anche di datati ai secc. IV-V) e dai più tardi cartacei.
Il formato (mise en page)
è provato che il formato adottato per i manoscritti, unitamente alla cosiddetta mise en page (ovvero l'impaginazione del testo), seguissero precise norme, legate, a seconda dei tempi, a necessità di ordine ora tecnico, ora economico, ora culturale. Quanto alle ultime due, si può spiegare accennando alla necessità maggiore o minore di sfruttare il supporto, condizionata alle possibilità economiche del momento o della zona geografica dove il manufatto veniva elaborato; a necessità pratiche ed economiche è legata anche la distribuzione del testo, che poteva essere posto su due colonne o a piena pagina, o, come nel caso dei manoscritti per uso universitario nel tardo medio evo, disposto al centro e contornato da una fitta scrittura che illustrava e glossava i contenuti. Una spiegazione di ordine economico sembra essere plausibile anche per l'uso delle abbreviazioni grafiche, più o meno usate a seconda dei tempi e dell'uso del codice (il codice di uso universitario, legato al periodo dei secc. XIV-XV in cui la produzione manoscritta era molto cresciuta, ne ridonda). Ma un elemento che ha condizionato nei secoli l'adozione di particolari formati del libro e di diverse impaginazioni è stato anche quello culturale: a titolo esemplificativo, così come nelle arti figurative le forme e i soggetti classici sono tornati ciclicamente nella storia ad essere imitati, anche nell'elaborazione del manoscritto si è appurato come l'imitazione del modello delle origini (IV-V secolo), o quello risalente alla rinascita carolingia (il "classico" medievale), abbiano costituito in molti casi precise scelte di stile, legate alle intenzioni della committenza. L'imitazione del modello grafico romano o carolingio è un altro aspetto di questi stessi atteggiamenti.
La Pergamena
Tra tutti, il materiale più resistente al tempo e all'assalto degli animali (microrganismi e macrorganismi), dell'acqua, del fuoco e di ogni tipo di accidente esterno è la pergamena, come già nel XIII secolo si comprendeva bene, se Federico II nel 1231 vietava di servirsi della carta per i documenti di cancelleria, ai quale in quanto tali era richiesto il requisito della minor deperibilità possibile. L'uso della pergamena si attestò sin dal secolo IV in area mediterranea e rimase in auge fino al secolo scorso, nonostante l'introduzione della carta, avviatasi massicciamente in Italia dal secolo XIV in avanti, ma affiancata a lungo dall'uso del vecchio e collaudato supporto.
La pergamena era normalmente ricavata dal vitello, dalla pecora o dalla capra, attraverso un lungo e laborioso processo, peraltro piuttosto costoso, se si considera inoltre che per realizzare un codice erano necessarie le pelli di diversi animali.
Si conoscono due ricette medievali (secc. VIII e XII) che illustrano il processo di preparazione della pergamena; da esse si deduce come la pelle, una volta staccata dal corpo dell'animale, si immergesse nel "calcinaio" (acqua e calce spenta), dove veniva lasciata per 5 giorni; seguiva la lavorazione del lato pelo con un coltello a lama non tagliente e in seguito, dopo un secondo "calcinaio", la scarnatura, ovvero la lavorazione del lato carne. Immersa una terza volta nel "calcinaio", la pelle veniva infine tesa su un telaio e sottoposta all'eliminazione definitiva del "carniccio" e fatta essiccare. A completare l'operazione, si levigava infine la superficie con la pietra pomice. Il risultato era più o meno raffinato a seconda della pelle utilizzata, dell'età dell'animale e della accuratezza della lavorazione, che nei casi estremi non consente di distinguere il lato pelo dal lato carne; normalmente, tuttavia, il foglio di pergamena presenta il lato carne più chiaro rispetto al lato pelo e spesso è possibile individuare ad occhio nudo i bulbi piliferi sulla superficie quest'ultimo.
Per la realizzazione di manoscritti si utilizzavano tutte le parti della spoglia (tale è il nome della pelle sottratta all'animale morto), piuttosto facilmente individuabili ad un'osservazione attenta.
Particolarmente pregiata era la pergamena "virginea", ovvero quella tratta dal feto dell'animale o da animali nati morti.
Gli attrezzi del mestiere ed i colori
Pochissime sono le fonti per risalire agli strumenti con i quali lavorava il miniatore, le uniche fonti disponibili sono le immagini stesse provenienti dai manoscritti ed ai ricettari, ossia ai manuali per il lavoro del miniatore.Il piu' celebre è il "De Arte illuminandi", proveniente da un manoscritto napoletano del XIV secolo, conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel manoscritto,scritto da un anonimo, viene descritta l'arte e la tecnica della miniatura, la preparazione dei colori artificiali e naturali e le tecniche per applicarli, la composizione delle colle e dei leganti, la realizzazione della foglia d'oro e del mordente per farla aderire alla pergamena.
Le fonti ci restituiscono un arsenale impressionante: penne, squadre, righe e compassi; stilo di piombo per l'abbozzo del disegno; mollica di pane e raschietti per cancellare; coltelli per temperare le penne, tagliare le foglie d'oro e d'argento, grattare via le polveri dei colori; filtri di tessuto – colatoria – per chiarificare i liquidi o separare i colori da soluzioni depuranti; mortai e pestelli di porfido, di bronzo o d'oro per la macinazione dei colori minerali; vasi e ampolle di vetro o terracotta, corni di bue, sacchetti di cuoio, gusci di tartaruga o conchiglie, tavolozze.
Code di scoiattolo e penne d'avvoltoio
I pennelli più adatti alle miniature erano fatti con i peli della coda del vaio o scoiattolo, riuniti e legati in un cannello di penna d'avvoltoio o d'oca, di gallina o di colombo, a seconda della grandezza desiderata, a cui si applicava un'asticciola di legno affusolata e appuntita all'estremità libera. I peli venivano pareggiati tagliandoli con la forbice o sfregandoli sulla pietra di porfido fino a rendere la punta sottile. Il pennello di setola di porco veniva usato dal miniatore per sbattere o schiumeggiare la chiara d'uovo. Per lucidare le argentature e le dorature si adoperavano i brunitoi, costruiti montando su impugnature di legno di denti di vari animali, specie carnivori (lupi, cane cinghiale), oppure il diaspro rosso o l'agata, tagliati a forma di dente, arrotati sulla mola e sfregati con polvere di carbone sulla pietra di porfido. Prima dell'uso i brunitoi dovevano essere strofinati con un panno per renderli asciutti e caldi, come consiglia Cennino Cennini nel suo Trattato della pittura: "Togli la tua pietra da brunire e fregatela al petto, o dove hai migliori panni, che non sieno unti. Riscaldala bene" (Cap. CXXXVIII).
Tutte le ricette, che siano annotate nei margini dei manoscritti o sui fogli di guardia o raccolte più organicamente nei trattati, prestano particolare attenzione ai colori, la cui buona composizione era dunque un'esigenza primaria per il miniatore, che quasi sempre li preparava da solo e raramente li acquistava, più o meno pronti all'uso, dall'apotecario.
Colori al fiele
I colori sono in genere composti da pigmenti uniti leganti. I pigmenti possono essere artificiali, ottenuti per reazioni chimiche, come il cinabro, composto di zolfo e argento vivo (il mercurio), oppure naturali, minerali allo stato puro o estratti vegetali. I minerali – come i lapislazzuli – venivano pestati e ridotti in polvere, quindi decantati in acqua per liberarli dalle impurità e messi a seccare; con i succhi di particolari piante venivano invece imbevute pezzuole di lino lasciate seccare e poi strofinate con il pennello bagnato per stendere il colore.
I pigmenti venivano stemperati con sostanze leganti e agglutinanti: chiara d'uovo, gomma arabica, colla di pelle o di pergamena. Il De arte illuminandi consiglia una soluzione di gomma arabica, albume e miele "per lucidare i colori, perchè risplendano come avviene con la vernice sulle tavole" (cap. XXIX). Il fiele di bue dava vivacità e adesione alle tinte, l'orina alcalinizzante era usata nell'estrazione dei colori vegetali, l'allume di rocca per le lacche. Uno stesso colore si poteva ottenere da sostanze diverse: il blu, per esempio, macinando l'azzurrite, un minerale estratto soprattutto in Germania (veniva chiamato anche azzurro della Magna), in Tirolo e in Francia meridionale, o il lapislazzuli, ben altrimenti prezioso, che arrivava da un Oriente favoloso, "de paese de Tartaria", "in le parte de Damasco e in le parte de Cipro", e più verosimilmente dalle miniere del Badakshan descritte nel Milione di Marco Polo: "quivi è una montagna, ove si cava l'azzurro et è lo migliore e lo più fine del mondo" (cap. XXXV).
La doratura si otteneva con procedimenti differenti, a foglia o a pennello, o con surrogati dell'oro. Ricostruire i colori delle miniature attraverso le ricette è difficile e richiede una serie di "precauzioni": tra le pratica quotidiana, i gesti dell'artista o dell'artigiano e la loro codificazione scritta si interpongono molti filtri, a partire da quelli legati alla trasmissione stessa del testo che, copiato più volte, modificato e contaminato, va filologicamente ricostruito nella sua struttura originaria. Si sa poi che le strategie operative, i segreti del mestiere, sono affidati in gran parte all'oralità.
Sangue di drago
La stessa nomenclatura dei colori è tutt'altro che canonizzata: le sostanze usate nel corso dei secoli cambiano nome e i nomi cambiano le sostanze. Col termine minium, ad esempio, viene chiamato a volte l'ossido salino di piombo, quello che ancor oggi si chiama minio, a volte il cinabro, ossia il solfuro di mercurio, e cinabro viene chiamato anche il sangue di drago.
I nomi dei pigmenti non sono mai neutri, anzi spesso ne giustificano l'uso: è il caso proprio del sangue di drago, che Plinio ritiene una favolosa miscela di sangue di dragone e di elefante. In realtà si tratta di una resina ricavata da una particolare famiglia di palme, ma il plusvalore simbolico e leggendario, oltre alla rarità del pigmento che già nell'età classica veniva contraffatto, ha sicuramente giocato un ruolo importante per la fortuna del sangue di drago non solo nella tecnica della miniatura ma anche nell'immaginario collettivo.
Il supporto ideale
La pergamena è un supporto ideale per accogliere le miniature e, anche se la sua preparazione non è un compito specifico del miniatore, egli si preoccupa della qualità delle pelli impiegate, del loro colore – i pittori non usano quasi mai le pelli di montone borgognone perché hanno una tinta irregolare -, dello loro provenienza – un miniatore inglese del XII secolo, Ugo, impiegò nella Bibbia eseguita per l'abbazia di Bury St. Edmund pelli fatte arrivare appositamente dall'Irlanda – della loro consistenza – per i manoscritti miniati si preferiscono pelli di vitello o di capra, meno grasse di quelle di pecora – e del loro spessore – in generale la pergamena delle pagine miniate ha non solo una superficie più ruvida per impedire la trasparenza e favorire l'adesione dei pigmenti, ma è anche notevolmente più spessa. Non è insolito riscontrare, in uno stesso codice, pergamene diverse per le pagine destinate a contenere solo il testo e per quelle decorate, un accorgimento che si è dimostrato dannoso per l'integrità del manoscritto.
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