Storia della Biblioteca di Farfa
L'abbazia di Farfa e il suo scriptorium
L'abbazia di Farfa fu fondata, secondo la tradizione, intorno alla metà del secolo VI dall'abate Lorenzo, santo originario della Siria. Essa fu poi distrutta dai longobardi nel secolo VII, come si legge nella Constructio monasterii Farfensis, cronaca locale opera di un monaco vissuto nel secolo IX. Dalla medesima fonte veniamo a sapere che sullo scorcio del secolo VII san Tommaso di Maurienne, pellegrino che dalla Savoia si era recato in Terra Santa e poi a Roma, di ritorno si trattenne qui e ridiede vita all'abbazia, la cui fortuna da allora crebbe di molto, specialmente in seguito all'attribuzione del privilegio imperiale con cui nel 775 Carlo Magno la acquisiva alla sua diretta protezione, sottraendola alla competenza della Chiesa di Roma. L'abbazia assunse così il ruolo di feudo imperiale, in considerazione della sua dislocazione sul territorio laziale, luogo strategico cui fare riferimento nella gestione dei rapporti con Roma e con il regno Longobardo. In quanto tale, l'abbazia farfense fu beneficiaria di numerosi beni e proprietà sparsi per il territorio italico, Roma inclusa.
Nonostante la connotazione "imperiale" la comunità farfense ebbe sempre rapporti con Roma, dalla quale provennero alcuni abati (Probato, in carica dal 772 al 779, era stato istruito alla schola cantorum lateranense) e diversi monaci; viceversa, a Roma ripararono molti monaci farfensi in occasione delle invasioni saracene del secolo IX.
La Regola benedettina richiedeva la presenza nei cenobi dei testi necessari alla pratica liturgica e spirituale; sulla scorta di questa istanza si procedette dunque alla produzione e all'acquisto di codici, sui quali la Constructio monasterii farfensis fornisce una testimonianza oggi ritenuta più che attendibile. La produzione locale e l'acquisto o dono di libri per il cenobio costituirono un'attività regolare per alcuni abati quali Alano (761-769) e Benedetto (802-815) e la floridezza economica di cui l'abbazia dall'epoca carolingia godette si manifestò dunque non solo nei vastissimi possedimenti terrieri, ma anche nel patrimonio librario, del quale oggi rimane ben poco ma che sappiamo con certezza essere stato ingente e prezioso e inoltre indotto dalla presenza di uno scriptorium locale, sicuramente attivo fino al secolo XV. Non per nulla l'abate Ugo di Farfa (secc. X-XI) nella sua Destructio monasterii Farfensis affermava che, quanto a patrimonio librario, in tutto il regnum Italiae non si trovava monastero che potesse essere paragonato al suo, fatta eccezione, forse, per Nonantola. La produzione manoscritta farfense di questo periodo aureo non si è conservata fino ai nostri tempi, fatta eccezione per quattro codici, oggi conservati presso le Biblioteche Nazionale e Vallicelliana di Roma, la Biblioteca Apostolica Vaticana e (si tratta di un frammento) a Merseburg (Germania).
Se la seconda metà del secolo IX portò con sé le sventure legate alle incursioni e distruzioni saracene e all'abbandono del cenobio, il successivo (non a caso detto comunemente "di ferro", in opposizione all'"oro" del più sicuro e fecondo periodo carolingio) fu tale anche per Farfa, che rimase coinvolta nelle feroci lotte in corso nella penisola, in preda alla destabilizzazione e confusione generale seguita allo smembramento dell'impero carolingio. Essa fu allora specchio della difficile ed instabile situazione politica in cui versavano Roma e la penisola italica nel suo complesso, riducendo drasticamente tutte le attività anche in considerazione del numero esiguo dei suoi occupanti. Il secolo X segnò dunque per Farfa un periodo di forte decadenza generale; da questa si risollevò grazie agli interventi di Ugo I, che introducendovi la riforma cluniacense le permise di risalire la china, tornando via via alla prosperità e alla stabilità morale e politica e, dunque, alla rinascita culturale. La ripresa della regola benedettina, infatti, richiedendo il ritorno alla lettura delle Sacre Scritture e ai loro commenti, comportava la necessità di riappropriarsi degli strumenti utili a coltivare le discipline affini ed era pertanto necessario che il cenobio ne producesse o acquistasse; ecco allora gli sforzi in questa direzione degli abati Ugo e Almerico (1039-1046; precettore dell'imperatore Enrico II), il quale ultimo dotò l'abbazia di ben quarantadue libri, come ricorda Gregorio di Catino nel suo Chronicon. Il loro esempio fu poi seguito dai successori Berardo I, II e III.
Gregorio di Catino, monaco archivista e storiografo farfense attivo negli anni 1092-1132, tramanda il testo di un inventario dei libri liturgici posseduti dall'abbazia, che descrive come riccamente rilegati e risalenti all'epoca di Berardo III; la sua testimonianza è stata verificata tramite l'indagine paleografica, codicologica e testuale effettuata su un gruppo di manoscritti di area laziale e datati fra il secolo XI e il XII, oggi attribuiti con certezza pressoché assoluta allo scriptorium farfense e conservati presso le biblioteche Apostolica Vaticana, Casanatense, Nazionale e Valliceliana di Roma, la Biblioteca Augusta di Perugia e la Zentralbibliothek di Zurigo (sec. XI e XII). Dall'analisi di questi e di altri manoscritti riconosciuti come farfensi è emerso un quadro di vivacità intellettuale e artistica dello scriptorium farfense che caratterizza entrambi i secoli, allorché andavano e venivano monaci la cui educazione grafica ci parla di Roma come dell'Italia settentrionale. Fu allora che alla caratteristica scrittura minuscola "romanesca", tipica dei centri scrittori monastici di Subiaco e S. Eutizio di Norcia, si aggiunse una minuscola carolina tipica dei manoscritti farfensi; ne sono esempio i mss. Farfense 27 della Biblioteca Nazionale di Roma (Expositio Evangelii secundum Lucam, di Ambrogio) e Eton College Library 124 (Vita Gregorii di Giovanni Immonide). Il già ricordato Gregorio di Catino, autore delle quattro opere che costituiscono la fonte più preziosa sulla storia sul cenobio (Regestum, Liber largitorius, Chronicon e Liber floriger), vergò i suoi manoscritti quasi interamente di suo pugno e gli originali, giunti sino a noi, sono oggi conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Biblioteca Nazionale di Roma.
Il legame con l'Impero e l'autonomia da Roma persistettero fino al tempo dell'imperatore Enrico V (1056-1124), rimanendo l'abbazia schierata con i sovrani d'Oltralpe nella lotta da essi sostenuta con Roma per le investiture; la naturale conseguenza di ciò fu il brusco mutamento di sorte che essa subì in seguito al concordato di Worms (1122) sottoscritto da Enrico V e Callisto II, che privava l'imperatore della possibilità di disporre degli enti ecclesiastici e riconduceva pertanto l'abbazia alla giurisdizione pontificia. Decadevano così autonomia, benefici e possessi della comunità farfense e la sua importanza politica ed economica si riduceva irreversibilmente; i papi se ne annettevano le rendite, i beni e le finanze, ponendo inoltre alla sua guida abati sotto il proprio diretto controllo.
Il nuovo regime "controllato" caratterizzò i secoli successivi, risolvendosi infine nell'istituzione della commenda, che Martino V introdusse sul nascere del secolo XV. Con la pratica della commenda l'abbazia veniva affidata a cardinali membri di nobili e potenti famiglie romane (il primo fu Francesco Tomacelli) e con ciò la sua autonomia gestionale ed economica cessava di esistere.
La commenda consentì l'affermazione ed il consolidamento sul territorio di alcune famiglie baronali, prima fra tutte quella degli Orsini, capillarmente presenti in Sabina già nella prima metà del secolo XV e fortemente interessati alla gestione del patrimonio fondiario ed immobiliare di Farfa. Gli abati commendatari della famiglia Orsini rimasero alla guida dell'abbazia fino al primo trentennio del secolo XVI e fu per favorire costoro che nel 1477 il papa suddivise la mensa abbaziale (le rendite dei possedimenti) tra l'abate commendatario e il priore, escludendo quest'ultimo dalla gestione del patrimonio fondiario.
Il carattere squisitamente politico ed economico delle vicende e attività del cenobio farfense del periodo non fu tale da cancellarne interamente l'attività culturale, che lo scriba anonimo sottoscrivente il manoscritto Farfense 16 (Breviarium secundum consuetudinem monasterii Farfensis della Biblioteca Nazionale di Roma) il 25 marzo 1499 lascia intuire essere stato ancora attivo. Sicuro è anche l'avvenuto scambio di libri con la comunità di Subiaco, dovuto alla presenza dei monaci teutonici qui giunti da quel cenobio.
E con ciò veniamo ad un altro capitolo connotante le vicende farfensi dalla seconda metà del secolo XV. Fu allora infatti che Roma decretò l'unione del monastero sublacense al farfense, faticosamente realizzatasi nel 1477 con l'allontanamento dall'abbazia dei monaci che la occupavano e l'inserimento dei loro confratelli teutonici e destinata tuttavia ad essere vanificata nell'arco di circa cinquant'anni, come si dirà poco oltre.
Le vicende dell'abbazia (e il suo degrado, o meglio il suo stallo culturale) risentirono poi fortemente della decisione di Paolo III Farnese (1534-1549) di attribuirne alla propria famiglia la commenda, sottraendola alla famiglia Orsini. I rapporti dei monaci teutonici con i cardinali Farnese furono sempre tempestosi e la tensione culminò nel 1567, quando Alessandro Farnese ottenne da Pio V l'annessione del monastero farfense alla Congregazione Cassinese1. I monaci tedeschi di Subiaco, che a suo tempo si erano rifugiati a Farfa per sfuggire a quella giurisdizione, abbandonarono allora in massa il monastero e a loro subentrarono i cassinesi.
Erano ormai lontani e dimenticati i tempi della fioritura intellettuale e Farfa sarebbe stata ormai definitivamente un semplice "feudo" delle famiglie romane di spicco, importante luogo di fiera e di mercato e sede di interessi economici, ma non più culla di interessi culturali. Si distinguono sicuramente, nei secoli XVII-XIX, alcuni monaci quali Gregorio Urbano e Isidoro da Pistoia (sec. XVII), volenterosi e dediti ad opere di compilazione e alla raccolta delle memorie storiche del luogo, motivate per lo più dalla necessità di rivendicare e attestare diritti, ma pur sempre di interesse storico e storiografico; costoro, pur meritevolissimi e importanti custodi di fonti in parte ormai perdute, appartengono a tutt'altro capitolo della storia farfense.
A cura di Federica Gargano per Codess Cultura